giovedì 4 febbraio 2016

Recensione: "Storia di una capinera", Giovanni Verga

 STORIA DI UNA CAPINERA

Titolo: Storia di una capinera
Autore: Giovanni Verga
Edizione: Fabbri Editori
Pagine: 146
Prezzo: 7.00€
Consigliato:

Storia di una capinera è un romanzo scritto in forma epistolare da Giovanni Verga.
Fu scritto tra il giugno e il luglio 1869, durante il soggiorno dello scrittore a Firenze.
Al 1871 risale, perciò, la prima pubblicazione ufficiale del romanzo, apparso dapprima all'interno della rivista di moda "La ricamatrice" e poi in volume. In realtà, però, il romanzo era stato già pubblicato nel 1870 a puntate su un'altra rivista del Lampugnani, ovvero il "Corriere delle dame" con il titolo "La capinera."
Il romanzo è in parte autobiografico: prende spunto, infatti, da una vicenda vissuta in prima persona da Verga quand'era ragazzo: in seguito all'epidemia di colera che si era scatenata su Catania, la famiglia Verga si rifugiò a Tebidi, una località tra Vizzini e Licodia. Verga, all'epoca quindicenne, si innamorò di Rosalia, giovane educanda del monastero di San Sebastiano.
La protagonista del romanzo è Maria, diciannovenne al momento di apertura del romanzo, rimasta orfana di madre da bambina e rinchiusa all'età di sette anni in un convento di Catania, destinata a diventare monaca di clausura per motivazioni economiche, in quanto suo padre è un semplice impiegato. A causa dell'epidemia di colera del 1854, Maria fa ritorno alla dimora del padre, risposatosi per la seconda volta e con due figli, Gigi e Giuditta. Qui, Maria incomincia un lungo scambio epistolare con Marianna, ragazza conosciuta in convento, nonché sua migliore amica e confidente, anche lei tornata a casa dai genitori a causa dell'epidemia.
Inizialmente le lettere di Maria lasciano trasparire una spensieratezza e felicità dovuta alla pienezza delle sue semplici giornate, piccole cose che tutti gli altri giudicherebbero normali, ma per lei rappresentato la novità, l'opposto di tutto ciò che esiste all'interno delle mura del convento. A ciò, si aggiunge poi la gioia di vivere in mezzo a quell'amore che solo una famiglia può dare, anche se il suo bisogno di essere amata le fa scambiare per sincero affetto l'atteggiamento severo della matrigna, che la tratta non al pari dei suoi figli naturali, ma piuttosto come un'ospite neanche del tutto gradita, al contrario del padre che tende spesso a difenderla e a non rimproverarla.
Durante questa sua allegra permanenza nel "mondo esterno", un unico pensiero turba la sua serenità: il dover rientrare in convento al termine dell'epidemia. Invidia, infatti, Marianna per la sua decisione di non fare più rientro in convento.
Ben presto un altro motivo comincerà a turbare la quiete interiore della protagonista, in quanto a poca distanza dalla loro casa, vi è una casa abitata dalla famiglia Valentini, molto amici della sua famiglia e con i quali trascorrono parecchio tempo. Maria diventa molto amica di Annetta, figlia dei Valentini e sua coetanea e conosce anche il figlio maggiore, Antonio, detto Nino. Nei giorni trascorsi insieme, nelle feste famigliari, nei balli e nelle trafelate corse che coinvolgono i figli delle due rispettive famiglie, Maria e Nino hanno l'occasione di avvicinarsi, insinuando via via nel cuore della giovane educanda un sentimento del tutto nuovo per lei: l'amore. Essendone completamente estranea, Maria scambia il sentimento per una strana e pesante malinconia, che non sa spiegarsi e che la tormenta. Dopo una lunga analisi interiore, Maria capisce di essersi innamorata di Nino e ciò la fa sentire terribilmente in difetto con la veste di monaca che porta addosso e che in fondo al cuore non vorrebbe più indossare per abbandonarsi tra le braccia dell'amato. La situazione peggiora quando Nino le fa capire di ricambiare gli stessi sentimenti d'amore e la prega di non respingerlo e di abbandonare il destino che le è stato assegnato non per sua volontà.
Maria cade in un grave stato depressivo quando la matrigna, vedendo in lei un atteggiamento diverso nel giro di pochi giorni, le parla duramente ribadendole la necessità di diventare suora. La matrigna, credendo di aver cambiato storia e di trovarsi in "Cenerentola", le vieta nel partecipare a tutti gli incontri con la famiglia Valentini, e ovviamente con Nino. Questo fa ammalare gravemente Maria con continue crisi e attacchi di febbre arrivando anche a pensare che fosse giunta la sua ora.
Cessato l'allarme dell'epidemia la famiglia Valentini decide di fare ritorno a Catania. La notte prima di partire Nino si presenta alla finestra di Maria per salutarla, ma la giovane, ancora in convalescenza e fortemente a disagio, cade in preda di un pesante attacco di tosse che le fa perdere i sensi. L'indomani mattina troverà sul davanzale una rosa lasciata da Nino durante la fugace visita e che la pioggia notturna aveva infradiciato.
Maria, non ancora del tutto guarita, acconsente al rientro con la morte nel cuore, sia perché lascia - e per sempre - un luogo a lei molto caro, sia perché tornare a Catania significava tornare alla vita di clausura. Dalle anguste mura del convento, seppur con minor frequenza rispetto a prima, Maria continua a scrivere all'amica Marianna, ora suo unico conforto. Le lettere vengono consegnate a suor Filomena, suora laica molto legata a Maria e per la quale si incaricava di recapitare la corrispondenza.
L'isolamento all'interno del convento non fa che acuire la sofferenza interiore tanto da costringerla a passare buona parte dell'anno in infermeria a causa di ripetuti attacchi di febbre. Il corpo soffre, perché la mente ritorna sempre al breve periodo di gioia vissuto a Monte Ilice e a Nino. Questi pensieri "peccaminosi", del tutto inopportuni per una suora, le straziano l'anima, e allora si confessa, prega intensamente e si punisce digiunando e mortificando la propria carne per giungere ad uno sfinimento del corpo e dello spirito. Questi esercizi spirituali si intensificano ancor più quando riceve la terribile notizia del matrimonio tra Nino e la sorellastra Giuditta.
Successivamente Maria prende finalmente i voti. Alla cerimonia assistono tutti i suoi familiari, compreso un pallido. Teme di impazzire e racconta a Marianna della presenza in convento di una suora pazza, suor Agata, che da quindici anni è rinchiusa nella «cella dei matti». Racconta anche di una macabra tradizione del convento, secondo la quale la cella dei matti non deve mai rimanere vuota. Maria è atterrita al pensiero di poter essere lei la prossima.
Una mattina sale sul belvedere del convento e scopre che da lì può vedere la casa di Nino e Giuditta: da una finestra arriva perfino a distinguere nitidamente i due sposi. Da allora, ogni giorno e ogni notte si reca sul belvedere per scorgere Nino, saperlo a pochi passi dal convento fa emergere in lei tutti i suoi supplizi interiori, facendola impazzire. Il bisogno di vedere Nino le fa tentare di fuggire dal convento, ma viene trattenuta dalle converse e, mentre lei si dibatte, urla come una belva e lotta con tutta se stessa, viene trascinata all'interno della cella di suor Agata, la suora pazza, ma a quel punto Maria sviene. Viene portata nuovamente in infermeria dove, dopo tre giorni, muore.
Il libro si chiude con la lettera che suor Filomena, la suora laica, scrive a Marianna e con la quale le fa pervenire gli effetti personali della defunta trovati sul suo letto di morte: un crocefisso d'argento, alcuni fogli manoscritti, una ciocca di capelli e alcuni petali di rosa, di quella stessa rosa che Nino le aveva appoggiato sul davanzale la notte prima della partenza da Monte Ilice, e che furono trovate sopra le labbra di Maria quando morì.

Che dire, l'intensità di questo libro, sebbene sia raccolto in poche pagine rispetto agli altri romanzi di Verga, traspare ed è concentrata in ogni riga. La sofferenza di Maria, costretta a prendere i voti, causata dal suo cuore innamorato, per un amore corrisposto ma non concretizzabile la porta all'agonia, alla follia, alla morte. Quanti di noi hanno vissuto quella situazione di bilico tra il voler e non poter fare qualcosa? E se di solito siamo vincolati dal non commettere determinate azioni di abituale uso, cosa fare quando in questo caso ad essere repressi sono sentimenti? Se avvicino la mano al fuoco so bene di bruciarmi, la ragione è subito pronta a intervenire per evitare in tempo che il corpo subisca delle ferite. Ma cosa fare quando queste ferite sono interiori, quando questo fuoco è appiccato nel cuore ed è bruciante al tal punto da non permettere alcun intervento razionale? Questo è ciò che prova la protagonista di questo romanzo. I sentimenti sono difficilmente reprimibili, specie uno grande come l'amore. L'amore abbraccia tutto, il corpo, l'anima, l'essere in sé, come poter smettere di amare? Perché negare questi sentimenti solo per compiacere un volere di seconde e terze persone? Sono tanti i punti di domanda che genera questo romanzo, e in una società come quella dell'epoca c'era ben poco da rispondere, poiché il volere della famiglia era un po' un "ipse dixit", un volere immutabile e incontrastabile. Cosa possono sapere coloro che vivono al di fuori, respirando aria fresca, camminando per i prati o per le strade, intrattenendo conversazioni con i vicini, quanto possa essere "claustrofobica" la vita monacale se non è frutto di una propria volontà? Maria cerca di fare del suo meglio, arrivando persino a punirsi fisicamente, affinché questo suo dolore potesse alleviarsi, ma come è possibile rinunciarci, essendo poi anche corrisposto? L'immagine che Verga da' all'interno del romanzo riflette perfettamente i conflitti interiori di una ragazza della sua età che vive quella precisa situazione. Il lettore vive e sente tutto con la protagonista, dai momenti di gioia passati a Monte Ilice, al dolore straziante del convento e dei suoi pensieri tormentati dal suo cuore traboccante di desiderio e amore. La visione del corpo di Maria, ormai privo di vita, con i petali della rosa che il suo Nino le aveva lasciato alla finestra sulle labbra è difficile da dimenticare se si pensa che quei petali erano tutto ciò che aveva del suo amore e che ha tenuto con sé fino alla morte. Un romanzo breve ma ricco di sentimento, un classico di minor notorietà se si pensa ai grandi capolavori di Verga, come "I Malavoglia" o "Mastro Don Gesualdo", ma a mio parere occupa ugualmente un alto gradino, scorre velocemente ed è coinvolgente sin da subito. Un classico consigliato!

VOTO: 8 1/2

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