mercoledì 26 luglio 2017

Recensione: "Lettere a Milena", Franz Kafka

Titolo: Lettere a Milena
Autore: Franz Kafka
Prezzo: €10,00
Pagine: 242
Edizione: Oscar Mondadori
Consigliato:

A partire dall'Aprile del 1920, Kafka cominciò a scrivere le prime lettere a Milena Jesenskà Pollak, una traduttrice ceca che aveva conosciuto durante un suo soggiorno a Praga. Sebbene vi siano state altre donne nella vita dell'autore, nessuna lo aveva mai colpito così tanto nel profondo. E' da rendere nota la personalità inquieta di Kafka, di un uomo costretto all'ascesi non per sua vocazione personale o per una sorta di eroismo nei confronti dell'etica, ma semplicemente per la sua incapacità di compiere delle scelte o scendere a compromessi. Tale amore, il quale appare di per sé già complicato, sebbene profondo, sembrava destinato a non durare.














« E forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso. »
Se ricordate il Kafka degli scritti più famosi (giusto per citarne alcuni "Il processo", "La metamorfosi", "Il castello"), in questo libro resterete probabilmente sorpresi. Negli scritti precedenti ciò che non emerge è la vera essenza dell'autore, la sua vera vita, il modo di affrontare la sua di vita. In "Lettere a Milena" viene messa a nudo la figura di Kafka, vengono raccolti i suoi tormenti, i suoi costanti dubbi, la sua profonda debolezza caratteriale: bisogna tener conto del timore dell'autore di apparire agli occhi altrui una persona ripugnante, sia mentalmente che fisicamente. Timore che apparentemente non si mostrava evidente, tant'è che chi lo descrive afferma di aver conosciuto un uomo tranquillo, di cui si intuiva subito una fine intelligenza e umorismo. Queste apparenze, però, vengono smentite in questa corrispondenza, la quale esprime la profonda inquietudine dell'autore e la consapevolezza di dover conquistare con fatica anche le cose più semplici.
Tutto cominciò nel 1919 quando Milena si imbatté in un breve racconto dello scrittore e gli scrisse per ottenere l'autorizzazione alla traduzione dal tedesco al ceco. Da quel momento cominciò una intensa corrispondenza tra i due. Si incontrarono soltanto poche volte fino a quando Kafka pose fine alla loro relazione, anche a causa del fatto che Milena non voleva lasciare il marito. A riprova del loro rapporto Kafka lasciò a Milena i propri diari, inviandole anche le lettere che scrisse per suo padre, che verranno poi raccolte e pubblicate successivamente. 


Quando dico che in queste lettere emerge tutta l'anima di Kafka credo di non esagerare. Ho colto quale fosse il suo stato d'animo, il quale probabilmente lo ha accompagnato per tutta la vita, in queste precise parole: 
" ..non ho mai un momento di calma, che nulla mi è donato e tutto deve essere acquistato, non solo il presente e l'avvenire, ma anche il passato; ciò che a ogni uomo è dato, anche questo deve essere acquistato ed è forse la fatica più grave; se la terra gira a destra - non so se lo faccia - io dovrei girare a sinistra per recuperare il passato. Non ho però la minima energia per tutti questi obblighi, non posso portare il mondo sulle spalle, vi reggo a malapena il cappotto d'inverno.
[...]
Io non posso per mia iniziativa percorrere la via che vorrei, anzi non posso nemmeno voler percorrerla. Posso soltanto star quieto, non posso volere nient'altro, non voglio neanche altro."
Avete presente quella consapevolezza di non riuscire mai a vivere tutto ciò che accade nella propria vita con un briciolo di leggerezza? E non perché non si voglia, ma perché si sente di non poterlo fare. 
Quando si è vissuto per tutta la vita sentendo il peso di ogni esperienza, di ogni parola, di ogni evento, positivo o negativo che sia, sarà ben difficile non pensare unicamente a difendersi dai colpi della vita stessa. E' come essere su un sentiero lunghissimo, si sta camminando semplicemente, contemplando il paesaggio circostante, sentendosi pieni, non si sa di cosa, forse di una sorta di tranquillità data da quel cielo azzurro che ci sovrasta, da quel vento leggero che accarezza, da quell'erba così verde posta ai lati del sentiero. Pensate di essere in questo stato di assoluta pienezza e serenità. Ad un certo punto, però, il cielo comincia a coprirsi di nuvoloni grigio scuro, il vento comincia a farsi sempre più forte, quasi come se la carezza che sembrava stesse donandoci un momento prima diventasse tutta ad un tratto un forte schiaffo; quella tempesta non permette che il cammino continui in modo beato come prima, perciò non basta più camminare, bisogna difendersi. Inizialmente è come sentirsi spiazzati, si cerca di capire come sia stato possibile questo cambio così rapido e violento, ma ciò che d'istinto l'uomo tende a fare è coprirsi il viso, di coprire gli occhi che fino a poco prima vedevano tutto quel bello, quello stesso bello che adesso lo costringe a tenerli chiusi. Si cerca di mantenersi in piedi e di continuare a camminare. A questo punto, possono accadere due cose: si può lottare con tutte le proprie forze, ponendo un piede davanti all'altro e continuare camminare nonostante la tempesta, mantenendosi aggrappati all'idea che quel bello tornerà, basterà solo superare la tempesta oppure ci si può abbandonare al flusso e cadere a terra, con il vento che man mano comincerà a ricoprirci di terra, scavando un fosso di cui si diventerà i prigionieri, e l'erba che precedentemente ricopriva i lati del sentiero comincerà a posarsi anche su quella terra cui si giace al di sotto, e tutto apparentemente sembrerà normale, nessuno vedrà che lì sotto ci sarà qualcuno. Quando la tempesta sarà finita, e tutto si placherà, nessuno si accorgerà che sotto quell'erba c'è qualcuno che ha permesso che il flusso lo trascinasse via, e che di lì in avanti porterà sempre gli schiaffi del vento sulla pelle, terrà gli occhi chiusi per paura che la tempesta lo aggredisca di nuovo, si ricoprirà di erba come difesa dal mondo intero, facendo finta che questo malessere in realtà non esista. Badate bene, però, che coloro rimasti con gli occhi ben aperti, e che avranno visto davvero e superato quella tempesta, sapranno benissimo che non sarà così. Tutti, in fondo, nascondiamo delle ferite che nessuno dovrebbe riaprire per soddisfare unicamente la sua curiosità o per far sì che le difese che ciascuno di noi costruite per tutta la vita cadano miseramente. Probabilmente anche Kafka si sarà sentito in questo modo, con una vita passata ad attutire i colpi di quella prima caduta, a coprirsi d'erba per non tradire le apparenze, a percorrere con timore quel sentiero con la costante sensazione di camminare nella quiete ma di essere travolto improvvisamente dalla tempesta che riduce la tua forza, che ti invita ad arrenderti ad essa, che fa volar via col vento le tue difese, la tua serenità. Molto spesso si cerca di colmare queste mancanze con l'amore: si cerca negli altri l'amore che non si è riusciti ad avere per se stessi, con tutte le insicurezze, i timori, ma con il desiderio di provare ad avere qualcuno accanto. Kafka si "affida" a Milena per curare il suo spirito, stanco e compromesso, sperando che possa diventare il suo porto sicuro, la sua ancora di salvezza, anche se sa benissimo che ciò non è possibile, ma la sua consapevolezza si contrappone al costante desiderio di averla con sé. A volte ci innamoriamo di quella persona perché non avremmo mai pensato che lei potesse innamorarsi di noi; noi che sappiamo tutto quel caos che abbiamo in testa, che sappiamo il malessere costante che preme sullo stomaco, che rende il cuore un po' più pesante e difficile da conquistare, però a quella persona piacciamo comunque, e non ci sembra possibile. Milena era legata da un affetto sincero a quell'uomo così malinconico ma così altrettanto apprezzabile, sebbene non sia mai riuscita a lasciare suo marito per lui. Kafka, che forse pensava a Milena come ad una stella luminosa, era anche lei finita in quel fosso e faceva il possibile per continuare a rimanere in piedi, o forse sapeva che era così, ma in questi casi è più facile ritirarsi ognuno nel proprio rifugio piuttosto che rifugiarsi in due nello stesso. La consapevolezza spaventa, mettere nelle proprie mani quelle di un'altra persona è un vero e proprio impegno che chi non è riuscito a tenersi stretta la propria non riesce a prendersi. 


« Io, bestia silvestre, non stavo nella selva ma giacevo non so dove, in un fosso lurido (lurido soltanto per la mia presenza) ed ecco che ti vidi fuori all'aperto, la cosa più meravigliosa che avessi mai visto, dimenticai tutto, mi dimenticai interamente, mi alzai, mi avvicinai, timido bensì in quella nuova eppure natía libertà, mi avvicinai dunque, arrivai fino a te, tu fosti tanto buona, mi accovacciai presso a te come se ciò mi fosse lecito, posai il viso nella tua mano, ero tanto felice, tanto orgoglioso, tanto libero, tanto potente, tanto a casa mia, sempre così: tanto a casa mia - ma in fondo ero sempre la bestia, appartenevo pur sempre alla selva, vivevo all'aperto soltanto per grazia tua e senza saperlo leggevo la mia sorte nei tuoi occhi. Non poteva durare. Anche accarezzandomi con la mano più generosa dovevi notare certe particolarità allusive alla selva, a questa origine, a questa vera patria, e vennero le necessarie ripetute discussioni dell'angoscia che torturavano me (e te, ma innocentemente) fino al nervo scoperto, e sempre più crebbe davanti a me la visione dell'immondo tormento, del continuo ostacolo che ero per te.
[...]
Ripensai chi ero, nei tuoi occhi non lessi più alcuna allusione, provai il terrore in sogno (di vivere in qualche luogo che non era il mio, come se fossi a casa mia) questo terrore lo provai realmente, dovetti ritornare nel buio, non sopportavo il sole, ero disperato veramente come una bestia smarrita, incominciai a correre a più non posso e sempre col pensiero: "Se potessi portarla con me!" e col contropensiero: "Esiste il buio dove è lei?".
Tu chiedi come io viva: ecco, così vivo.»


A volte si lascia andare qualcuno per paura che lo si porti nel proprio fosso e lo si rovini, senza capire che tutti, in un modo o in un altro, siamo accucciati in quel nostro rifugio con la speranza che qualcuno cominci a scavare fino a trovarci. Se ciò accade, però, è possibile anche che la meraviglia di esser trovato si trasformi ben presto nella paura di uscire allo scoperto, di dover lottare per resistere alla tempesta, poiché ormai ci si era abituati a stare nel proprio cantuccio in una apparente tranquillità, abituati nel proprio malessere. Non si può aiutare chi non vuol essere aiutato. Spesso la paura supera anche il coraggio, ma vivere nell'abisso non farà altro che assorbirvi fino a farvi scomparire completamente. Alzate la testa, aprite gli occhi davanti alla tempesta, fatevi schiaffeggiare dal vento, ma continuate a camminare. Quando la tempesta sarà finita, non sarete più quelli che vi sono entrati. Sarete più forti. Stare con qualcuno non significherà aver bisogno di lui per colmare dei vuoti o trascinarlo nel proprio dolore come unica forma per tener vivo quel rapporto. L'amore non è bisogno, è desiderio di star con l'altro perché si sente che renderà la propria vita un po' migliore, ma non perché ne riempirà i vuoti. Starete con lui perché avrete affrontato la tempesta da soli, con le vostre forze, e potrete permettervi di aprire gli occhi per guardare di nuovo quel bello che prima vi era stato negato e che non avevate più il coraggio di osservare, di cui forse neppure vi accorgevate. Affrontare in due la tempesta significa rendere più facile il percorso: se uno cade, l'altro potrà riprendervi. Ma affrontarla primariamente da soli significa che avrete la forza di rialzarsi da sé e prendere la mano di chi amate per poter semplicemente camminare, sotto il sole o la tempesta, su quel percorso sentendosi nuovamente pieni, di una pienezza chiamata "felicità".


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